La tabacchicoltura
La pianta del tabacco viene introdotta in Europa alla corte del re di Francia dal Sud America verso la seconda metà del secolo XVI. L’iniziativa è del diplomatico francese Jean Nicot de Villemain. Dal suo nome deriva, infatti, la parola “nicotina”. Verso la metà del ’700, in Trentino, inizia la coltivazione libera del tabacco, soprattutto in Vallagarina.
Il territorio roveretano, con particolare concentrazione nella zona di Mori, diventa il centro di una produzione intensiva che si protrarrà fino agli anni ’60 del secondo dopoguerra. Protagonisti di queste vicende produttive saranno i maseradòri di Mori. Nel 1851 l’Imperial Regio Governo Austriaco stipula una convenzione con il Comune di Sacco per la costruzione di una manifattura tabacchi, visibile ancora oggi a Borgo Sacco di Rovereto.
Il sistema di coltivazione privilegiava la messa a dimora delle piante in campi protetti da teloni di garza bianca (cotone) i quali venivano a formare speciali serre arieggiate. In prossimità dei centri abitati, le foglie di tabacco erano poste a essiccare nelle màsere, ovvero in alte costruzioni dove potevano seccare supportate da bastoni di legno. Il paesaggio del tabacco si caratterizzava per la presenza di ampie e uniformi superfici di piante dalle larghe foglie di colore verde intenso. Tale unità paesaggistica connotava, oltre alla piana di Mori attraversata dal torrente Càmeras tributario dell’Adige, anche gli spazi alluvionali del fiume Sarca fra Dro, Arco e Riva.
La valle del Càmeras
La fertile valle del Càmeras e tutta la fascia di terreno pianeggiante che circonda Mori sono state abilmente sfruttate fin dai secoli scorsi per ricavare campi coltivati e mettere a dimora piante di gelsi e viti, oltre a tutti quei prodotti agricoli (patate, fagioli, frumento, granoturco, altro) destinati un tempo quasi esclusivamente all’autoconsumo. A queste produzioni si aggiunge per un certo periodo la coltura del tabacco, agevolata da un microclima molto favorevole e dalla naturale composizione del suolo.
Una fonte di reddito
Coltivare tabacco consentiva un sicuro rientro economico in un lasso di tempo – tra piantagione e raccolta – che non superava solitamente i 100 giorni. Ecco perché già durante l’800 la coltivazione del tabacco è molto diffusa e rimane a lungo tra quelle più remunerative per i proprietari dei campi nonostante l’entrata in vigore, a partire dal 1828, del monopolio statale. Infatti, almeno fino al 1827 “la coltura e la fabbricazione del tabacco erano libere” e le pregiate foglie, non appena pronte per la lavorazione, venivano portate nelle vicine masère per diventare poi “tabacco da fiuto”.
I maseradòri di Mori
L’eccellenza raggiunta dai maseradòri di Mori è testimoniata dal fatto che il governo austriaco adotta come marchio di garanzia i nomi che i produttori locali avevano dato alle qualità prodotte e commercializzate: “uso Trento“, “scaglia“, “scaglia fina“, “radica“. Col tempo, alcune famiglie di Mori riescono a ritagliarsi una cospicua fetta di mercato, quasi un monopolio. Ancora oggi si ricordano le dinastie dei Galassi, dei Chizzola, dei Cescatti, dei Gazzini, dei Caliari, dei Turella, cui si aggiungono i Gobbi e i Cattoi a Valle San Felice.
Le masère
Alla fine degli anni ’50 solo sul territorio di Mori si contavano 12 essiccatoi o masère, per una cubatura complessiva pari a 109.000 metri cubi, più del doppio di quelli esistenti ad Ala (43.000 metri cubi per 6 stabilimenti). Ancora oggi, nonostante le inevitabili modifiche strutturali e di destinazione cui sono stati sottoposti quasi tutti questi relitti di “archeologia rurale”, è piuttosto facile riconoscerne alcuni, di solito ubicati in zone particolarmente ventilate.
Il dopoguerra
La Prima guerra mondiale si abbatte con estrema violenza anche sui campi coltivati della cosiddetta “zona nera”, vanificando il paziente lavoro di intere generazioni di agricoltori che da quegli appezzamenti avevano saputo ricavare il necessario per allontanare lo spettro della fame. Finita la guerra, le terre rimaste incolte vengono velocemente bonificate. Lo Stato italiano, subentrato dopo il 1919 a quello Austro-Ungarico nel monopolio sul tabacco, ha interesse a riprendere la produzione della Manifattura Tabacchi di Borgo Sacco, dove, prima della guerra, lavoravano oltre 2.000 operai (in gran parte erano donne). La Manifattura riapre così pochi mesi dopo, il 19 marzo 1919, assumendo 1.400 persone per la lavorazione dei sigari e delle sigarette.
La coltivazione “sotto garza”
Verso il 1955 prende piede la coltura della varietà di tabacco Sumatra, detta anche “sotto garza”, per via degli enormi tendoni che coprivano i campi coltivati a tabacco occupando vaste aree del fondovalle. Questa particolare varietà di pianta era stata introdotta grazie alla felice intuizione di un tecnico austriaco, Otto Weber: ricoprendo con dei teli appositi i campi già votati alla coltivazione del tabacco, si vide che era possibile riprodurre un microclima molto simile a quello tropicale, mantenendo all’interno delle serre una temperatura caldo-umida adatta alla crescita delle pregiate foglie. Nasce così la coltura “sotto garza”, che per qualche anno, tra il 1955 e il 1963, caratterizza in maniera massiccia il paesaggio agricolo della Vallagarina e la zona di Mori con le caratteristiche coperture bianche.
L’abbandono della coltivazione
Alla fine degli anni ’40, sono 350 gli ettari in Trentino coltivati a tabacco. Prima della guerra erano 500. Difficoltà di mercato e il tracollo della produzione di tabacco “sotto garza” – falcidiato da un microscopico fungo che colpiva le foglie (peronospora tabacina) – portano all’abbandono della coltivazione nel Trentino. Le altre qualità di tabacco, quelle tradizionali coltivate in campo aperto, erano immuni dalla malattia ma non resistono alla concorrenza dei tabacchi d’importazione. Col tempo, i cosiddetti “tabacchi biondi” (con minore contenuto di nicotina rispetto al tabacco nostrano) soppiantano quelli locali, rendendo antieconomico proseguire la coltivazione e la lavorazione di un prodotto che non garantisce più adeguati margini di guadagno.
La fioritura
“Il fiore bianco-rosa, su grandi distese, come un mare che ondeggiava sotto il vento“. Oggi in pochi si ricordano del grano saraceno, ma un tempo era presente nella maggior parte delle valli del Trentino. Vaste aree della Valle di Non e della Valle di Ledro ma anche in Valle di Gresta (Monte Creino) e in genere tutte le vallate di media montagna.
La semina e i covoni
Il grano saraceno si seminava a spaglio in primavera dopo la mietitura del frumento o della segale. Dopo aver lavorato il terreno per la semina, il campo germogliava e si tingeva di verde. Il grano saraceno maturava tardi, nel mese di ottobre, quando era pronto per il taglio. Al termine dello sfalcio le donne erano abilissime nel costruire con le spighe i caratteristici covoni conici, grandi, ben disposti lungo il campo in file, in gruppi o in ordine sparso. Il terreno assumeva così l’aspetto classico del campo di grano saraceno, o formenton, a fine mietitura. I covoni rimanevano sul terreno alcuni giorni. E quando il grano era asciutto e si era fatto duro si sceglieva una bella giornata di sole per la battitura.
La battitura
Con la battitura, attività conclusiva del raccolto, si separavano i granelli del grano saraceno dalle parti della pianta che racchiudono il chicco e dal resto della massa verde. In un prato vicino al campo, oppure in una capezzagna (passaggio interpoderale libero dalle coltivazione), si stendevano per terra quattro lenzuoli, sopra i quali, partendo dal centro, venivano disposti in quadrati concentrici i covoni con le infiorescenze rivolte verso il centro. Si iniziava quindi la battitura del grano, usando un attrezzo chiamato in forma dialettale flavel (dal latino flagellum). Quest’ultimo era formato da due bastoni uniti tra loro da una correggia di cuoio (di qui deriva il nome italiano di correggiato). Gli uomini si posizionavano attorno al quadrato e cominciavano a battere il grano con il flavel per separare i chicchi. I battitori erano quasi sempre tre o quattro e dovevano sincronizzare i propri movimenti in modo che i flagelli non si incrociassero in aria o sulla paglia. Terminata l’operazione si radunavano i grani. Questo lavoro si svolgeva nel pomeriggio e in una giornata di sole, poiché i covoni non dovevano essere resi umidi dalla pioggia o dalla rugiada del mattino.
La farina e la polenta
Dal grano saraceno si ricavava la cosiddetta “farina negra” o “farina de marì”. Nei paesi di media montagna, dove faticava a maturare il mais da granella (con cui si otteneva la farina gialla), la “farina negra” era una valida alternativa. Dal seme del grano saraceno ridotto in farina si otteneva la polenta nera, molto saporita, capace di dare presto sazietà. La farina di saraceno è di mediocre qualità ma è abbastanza nutritiva. Anche per questo la polenta di saraceno era considerata in Trentino una buona variante rispetto alla polenta gialla e a quella di patate.
Citazioni principali dalle fonti bibliografiche
“(Rovereto) I legumi, le frutta e i vini sono eccellenti in tutti que’ paesetti. Il tabacco, oh! Il tabacco poi vi è stupendo, stupendissimo!”
Giacomo G. Ferrari, Aneddoti piacevoli e interessanti:le avventure di un musicista italiano fra Rivoluzione francese e restaurazione: 1763-1830