La selvicoltura
Il bosco. In Trentino si ha una variabilità tipologica dei boschi che possiamo definire “estrema”: si va dalle leccete caratteristiche del clima mediterraneo della Bassa Valle del Sarca alle fustaie di pino cembro e ai lariceti che sfidano le alte quote, ben oltre i 2000 metri, sfumando nelle mughete e negli ontaneti che si sviluppano ancora più in alto su terreni detritici alla base delle pareti e sulle cenge rocciose. Fra questi estremi sta gran parte dei polimorfici boschi che coprono oltre la metà del territorio trentino. Per la precisione, il 56% della superficie. Di questa parte il 70% circa è disposto su pendii con una pendenza superiore al 20%.
La storia dell’utilizzo, a volte dello sfruttamento, dei boschi in Trentino ha conosciuto in passato diverse fasi. Il ’700 e l’800 sono caratterizzati da dissodamenti selvaggi sulle pendici montane. La prima metà del ’900 è connotata dai tagli eccessivi dovuti alle due guerre mondiali e da un’utilizzazione poco sostenibile nel periodo tra le due guerre. Si verificano in questi due decenni, tra gli anni ’20 e gli anni ’30, alcune condizioni in particolare. In primo luogo, si registrano utilizzazioni intense e selvicolturalmente discutibili a opera dei proprietari dei boschi. In secondo luogo, si diffondono stretti controlli per limitare i danni dovuti ai tagli abusivi e al pascolo distruttivo (soprattutto delle capre).
In terzo luogo, si assiste a un’intensa attività di rimboschimento di zone idrogeologicamente dissestate e incolte. Su questa strada, la svolta più importante si verifica nella seconda metà del ’900. È in questo periodo che i rimboschimenti e il miglioramento dei boschi esistenti vengono individuate dall’Ufficio di assestamento forestale della Regione come le attività selvicolturali principali. Tale orientamento incontrò diverse resistenze. Occorreva inoltre puntare sul miglioramento dei soprassuoli forestali. All’epoca erano già in corso vasti rimboschimenti finanziati soprattutto con il cosiddetto “piano Fanfani” e con fondi della Regione. Ma nonostante le contrarietà sollevate, e alla luce degli ottimi risultati ottenuti, puntare sul miglioramento di boschi esistenti si è rivelata la strada giusta.
Il bosco come “bene collettivo”
In Trentino i boschi, a differenza di tutte le realtà alpine, sono prevalentemente delle proprietà collettive. Le foreste, così come gran parte delle aree pascolive, rappresentano un patrimonio delle comunità, gestito con attenzione dai proprietari con il supporto delle strutture tecniche forestali della Provincia autonoma di Trento. Appartiene a proprietà collettive il 76% dei boschi del territorio provinciale: tra queste vi sono i Comuni, le Asuc, le Consortele, il demanio forestale della Provincia autonoma di Trento e altro.
I rimboschimenti di pino nero
Già nell’ultimo quindicennio dell’800 si procede a rimboschire zone prive di vegetazione, come le colline attorno a Rovereto. Anteriori al 1915 sono i vasti rimboschimenti con pino nero sulle Marocche di Dro e sul Calisio. Negli anni successivi alla Prima guerra mondiale proseguì la ricostituzione boschiva delle superfici denudate dagli eventi bellici, delle zone franose e di altre aree non vegetate fra cui i Lavini di Marco e lo Zugna, la conca di Vezzano e Terlago. Questi rimboschimenti sono stati eseguiti usando prevalentemente il pino nero, una specie molto rustica e adattabile importata dall’Austria, in grado di colonizzare terreni poveri e di preparare il suolo ad accogliere specie forestali più esigenti.
La Seconda guerra mondiale
Prima, dopo e durante la Seconda guerra mondiale si eseguono più o meno legalmente estesissimi e devastanti tagli per sostenere lo sforzo bellico e per rispondere alle necessità delle popolazioni.
L’avanzamento del bosco
È di tutta evidenza l’aumento, sia pure non uniforme, della superficie boschiva e la consistenza dei boschi in Trentino. Alla fine degli anni ’50 i boschi coprivano circa il 47,5% del territorio provinciale. Oggi la superficie boschiva supera il 56%.
La selvicoltura naturalistica e il miglioramento dei boschi
Nella seconda metà del ’900 si attua un cambiamento radicale nella gestione forestale in Trentino, orientando la selvicoltura su criteri naturalistici. Ciò ha significato ricercare la sintonia dell’ecosistema forestale con le caratteristiche climatiche e di fertilità, valutando oltre all’aspetto produttivo anche quello ecologico. Per migliorare sotto questi aspetti i soprassuoli forestali si procede anche a un maggiore risparmio fra gli incrementi di legname e legna e le quantità che venivano autorizzate per il taglio. Ci si orienta così a ottenere soprassuoli più disetanei (piante di età differenti) e con più spiccate varietà compositive. Inoltre si inizia una vasta azione di trasformazione del bosco ceduo in fustaie. Questi cambiamenti hanno provocato anche forti malumori nelle vallate dove il bosco rappresenta una risorsa economica fondamentale. Ma, sul lungo periodo, i risultati positivi oggettivamente raggiunti sono documentati da dati certi.
La Magnifica Comunità di Fiemme e la foresta di Paneveggio
Di fronte al re-inselvatichimento ed alla rinaturalizzazione di prati e pascoli ad opera della “boschina” spontanea pioniera, la foresta di pregio coltivata costituisce un’entità paesaggistica di prim’ordine. Frutto di una lungimirante utilizzazione, tendente a conciliare la redditività economica con la qualità ecologica del paesaggio, il patrimonio forestale trentino si alimenta di una grande tradizione improntata ai modelli delle “terre collettive”, degli “usi civici”. Fra questi modelli di governo del bosco primeggia la Magnifica Comunità di Fiemme. Costituitasi il 14 Luglio 1111 a seguito della sottoscrizione dei Patti Gebardini fra i Vicini della Valle di Fiemme ed il Principe Vescovo di Trento, essa è pervenuta fino ai nostri giorni, pur se con alterne vicende legate ai mutati assetti storico-politici. Oggi la Magnifica Comunità amministra un’estensione di circa 20.000 ettari di boschi e pascoli secondo regole e statuti che garantiscono il mantenimento, l’incremento e la valorizzazione dell’ingente risorsa forestale. Nella foresta di Paneveggio, di proprietà della Provincia autonoma di Trento, sono presenti esemplari pregiati di abete rosso (peccio) il cui valore, oltre che paesaggistico, è riconducibile alla caratteristica di “legno di risonanza” destinato alla costruzione di strumenti musicali (violini). Situazioni abbastanza simili nella gestione dei boschi sono rintracciabili nei territori della Regola Feudale di Predazzo, delle Regole di Spinale e Manéz (Comuni catastali di Ragoli, Preore e Montagne nelle Giudicarie) e delle Consortele di Rabbi in Val di Sole.
L’esplosione delle masse legnose
Nel corso degli anni si riscontra una costante evoluzione positiva nell’incremento delle masse legnose e della varietà compositiva dei boschi in Trentino, con un trend di crescita che va via via stabilizzandosi a partire dalla metà degli anni ’90. Attualmente la biomassa presente in bosco viene stimata in oltre 100.000.000 di metri cubi, circa il doppio rispetto a quella esistente alla fine degli anni ’50, con un ritmo di crescita che si aggira intorno ai 2.300.000 metri cubi all’anno.
Citazioni principali dalle fonti bibliografiche
“I boschi sono trascurati, ed in balia della mano devastatrice del contadino. Sarebbono una sorgente di ricchezza. (…) Si sbosca continuamente per farvi de’ campi, l’industria non è molto inoltrata”.
1811, Annali dell‘agricoltura del Regno d’Italia
“L’essere principale di tai Legnami consiste in Larici, Abeti, e Peci, che vengono grandi, più, o meno, secondo i siti, ed’una tal Selva, come tra le altre di quella di Relon, si pagherà fin’un Ongaro per ciascun Pezzo” (Val Rendena)”.
1673, Michel’Angelo Mariani, Trento con il sacro Concilio et altri notabili