La viticoltura
La coltura della vite è documentata, fin dalla seconda metà del primo millennio avanti Cristo, dal ritrovamento di importanti reperti archeologici. Uno dei rinvenimenti più significativi è il vaso di rame noto come “situla etrusca” risalente al IV secolo a.C. Scoperto sul Doss Caslìr in Valle di Cembra nel 1825, porta incise lettere in alfabeto retico ed era probabilmente utilizzato in riti devozionali legati al consumo di vino. Furono proprio le popolazioni retiche che abitavano il territorio trentino, parte integrante della Rezia poi romanizzata a seguito della “Guerra Retica” (16-15 a. C.), a perfezionare le loro conoscenze nella coltivazione della vite e nella produzione di vino. In età romana tale tradizione si rafforza e, da un consumo esclusivamente locale, è probabile che si sia cominciato a esportare verso nord parte della produzione.
L’ultima grande colonizzazione rurale delle Alpi di epoca medievale, avviata dalla feudalità bavara e sveva lungo l’asta fluviale dell’Adige e dell’Isarco, favorirà la diffusione della coltivazione della vite, anche in ragione di un’aumentata domanda di vino oltre Brennero. L’innalzamento delle temperature medie dopo l’anno Mille, corrispondente al cosiddetto “optimum climatico”, porterà la viticoltura a espandersi sia in latitudine che in altitudine.
Il perfezionamento colturale della viticoltura trentina troverà una base scientifica fondamentale nell’apertura dell’Istituto agrario di San Michele all’Adige, avvenuta nel 1874 su iniziativa della Dieta Tirolese di Innsbruck. Fondatore e primo direttore sarà Edmund Mach.
La viticoltura trentina, nel corso dei secoli e fino al secondo dopoguerra, conviveva con forme di policoltura che sfruttavano gli spazi tra i filari per destinarli a produzioni integrative in funzione dell’autoconsumo. La modernizzazione e la specializzazione della produzione porterà rapidamente al tramonto di queste coltivazioni promiscue.
Il paesaggio viticolo trentino
Il paesaggio viticolo trentino si caratterizza per la sua estrema diversità, determinata dalla morfologia dell‘ambiente, dall‘altitudine e dall‘inclinazione dei versanti, dalle forme di allevamento, dal reticolo della viabilità interpoderale, dalla presenza di manufatti, dai materiali impiegati per gli stessi. Complessivamente, la superficie coltivata oggi in Trentino a vigneto è pari a 9.771 ettari. Poco più di una decina di anni fa, nel 2000, se ne contavano 8.149. I territori maggiormente interessati sono la Vallagarina (3.490 ettari), la Piana Rotaliana (2.278 ettari), la Valle dell’Adige (1.208 ettari). Seguono l’Alto Garda e Ledro (907 ettari), la Valle dei Laghi (717 ettari), la Valle di Cembra (693 ettari). In tutti gli altri territori del Trentino, tranne che in Valle di Fassa, sono presenti vigneti, anche se su superfici ridotte o ridottissime (Alta Valsugana e Bersntol, Giudicare, Valsugana e Tesino, Valle di Non, Altipiani Cimbri, Valle di Sole, Paganella, Valle di Fiemme, Primiero).
Trento, una città e un vigneto
Trento è il Comune della provincia con la maggior estensione di superficie coltivata. Sono oltre 1.000 gli ettari coltivati a vigneto in zone particolarmente vocate, che vanno dalla collina di Meano fino ai territori di Povo, Villazzano e Mattarello. In quest’area prevalgono vitigni di qualità a bacca bianca che consentono la trasformazione in ottimi vini.
Caldonazzo e la Valsugana
Anche i versanti esposti a mezzogiorno sulla sponda sinistra del Lago di Caldonazzo, sul Colle di Brenta, presentano ancora alcune superfici vitate, nonostante il progressivo abbandono nel corso del Novecento: in Valsugana, lungo la fascia di vigneti tra Caldonazzo e Castel Ivano, prevaleva il sistema di coltivazione “a palo secco” e “a ritocchino”, ovvero con i filari disposti lungo la linea di massima pendenza.
I terrazzamenti della Val di Cembra
Uno dei paesaggi viticoli più fortemente identitari e riconoscibili è il versante destro orografico della Valle di Cembra, interamente terrazzato con il supporto di muri in pietra a secco, grazie ai quali l‘opera dell‘uomo ha addomesticato pendenze talvolta impossibili. Qui, dove un tempo dominava la Schiava, ha trovato un habitat molto favorevole il Müller Thurgau.
L’area delle colline avisane
Poco distante dai terrazzamenti di Cembra, l‘area delle colline avisiane rappresenta un lembo di territorio dal fascino unico: tra Lavis e Faedo, passando per i Sorni, un‘ininterrotta distesa di vigneti affacciati sulla Valle dell‘Adige disegnano una trama lineare ma ricca di dettagli e varianti.
La Valle del Sarca e l’Alto Garda
Molto suggestivi sono i vigneti della bassa Valle Sarca e della Valle dei Laghi: attorno a Castel Toblino, sull’omonimo lago, così come alle Sarche di Calavino e giù fino alla rocca di Arco, il vigneto dialoga con le forme del territorio richiamando sensazioni esotiche di sapore mediterraneo. É questa una delle aree di maggiore vocazione della Nosiola, varietà alla quale si lega il noto Vino Santo, prodotto dall’appassimento delle relative uve su appositi graticci, le “arele”. Le uve appassite vengono ammostate durante la Settimana Santa e, dopo anni di invecchiamento in piccole botti, si trasformano in un vino dolce tra i più straordinari al mondo, piccola ma luminosa perla nel mondo del vino trentino.
Le uve bianche e le uve rosse
Fino alla metà degli anni ’90, le uve a bacca rossa erano predominanti. Nel 1980, esse rappresentavano addirittura l’80% della superficie viticola. Oggi le bianche hanno superato le rosse, con oltre il 70% della produzione di vino, anche grazie all’affermazione della spumantistica. Attualmente, la produzione in Trentino di uve bianche è oscillata nelle annate 2010-2011-2012 fra i 758.935 e gli 885.047 quintali. Nello stesso periodo di riferimento, quella delle uve rosse è oscillata tra i 301.301 e i 365.077 quintali.
Il patrimonio viticolo trentino
Il Trentino, come del resto tutto il territorio italiano, possiede una piattaforma ampelografica molto vasta: una variabilità genetica che rappresenta una ricchezza straordinaria, se ben valorizzata. Si è molto dibattuto sulle origini di questa variabilità. Di certo, si può affermare che anche in questa terra di confine i vitigni sono il risultato di tre diversi processi di selezione: la domesticazione delle viti selvatiche; la circolazione varietale, con prevalente origine orientale; l’introgressione genetica di viti alloctone nelle viti autoctone. Ma, nel corso della storia, questo patrimonio ha subito continue perdite, legate a fatti storici o a dinamiche di lunga durata. Si possono riconoscere alcune fasi importanti nell’erosione genetica in Trentino: la grande gelata del 1709, al termine della “piccola glaciazione”; la diffusione delle malattie e dei parassiti della vigna, dall’oidio nel 1850 alla drammatica calamità della filossera nel 1907; la crisi economica e demografica nella seconda metà dell’800, con l’avvio di migrazioni di massa delle popolazioni rurali e la progressiva scomparsa della viticoltura dalle valli laterali, nelle quali si conservava la maggior diversità genetica; più di recente, le tendenze del mercato globalizzato, che hanno spinto la produzione su poche varietà di carattere internazionale.
L‘Istituto agrario di San Michele all’Adige (Fondazione Edmund Mach)
Su impulso della Dieta tirolese di Innsbruck, e nel contesto più generale di una volontà di modernizzazione dell’agricoltura nell’impero Austro-Ungarico, nel 1874 nasceva a San Michele all’Adige una scuola agraria con annessa stazione sperimentale. Questo modello, che faceva convivere ricerca, didattica e consulenza, ricalcava precedenti esperienze come quella prestigiosa di Klosterneuburg (Vienna). Obiettivo dell’Istituto, fin da subito, fu la crescita qualitativa del settore vitivinicolo, attraverso la formazione di viticoltori e tecnici e la razionalizzazione della coltivazione e della produzione di vino. Sotto la guida di Edmund Mach, l’Istituto ebbe un ruolo di primo piano nella lotta alle infezioni della vite, in particolare nella campagna antifilosserica. Nel 1958 viene attivato l’Istituto Tecnico Agrario con ordinamento speciale per la Viticoltura e l’Enologia, adeguando l’offerta formativa alle nuove esigenze del mondo vitivinicolo. Con la fine degli anni Novanta, grazie ad un consorzio interuniversitario tra le Università di Trento e Udine e la Fachhocschule di Geisenheim (Germania), è stato istituito un corso di Laurea “interateneo” in Viticoltura ed Enologia. Nel settore della ricerca molteplici sono state le attività portate avanti in questi ultimi anni, dagli aspetti salutistici dei prodotti agroalimentari alla genetica per vite e melo, dalla tutela dell’ambiente al clima, dalle problematiche in frutticoltura, viticoltura, enologia agli aspetti inerenti la zootecnia, l’itticoltura, la selvicoltura ed altro ancora.
La Grande guerra
La Prima guerra mondiale rappresenta una profonda frattura nella storia della viticoltura trentina. In primo luogo, la distruzione di molti vigneti nei territori sul fronte di combattimento. In secondo luogo, le mancate cure del periodo bellico: con gli uomini arruolati e i civili internati lontano dal fronte, la produzione vitivinicola subì un tracollo negli anni tra il 1915 e il 1918, con gravi e spesso irreversibili conseguenze anche nel periodo successivo. Ma soprattutto furono le mutate condizioni politiche a condizionare le traiettorie dello sviluppo di questo settore: con l’annessione al Regno d’Italia, il Trentino passa da regione meridionale di un grande impero mitteleuropeo, nel quale i vini trentini erano richiesti e apprezzati, a territorio settentrionale di una nazione ricca di territori vitivinicoli caratterizzati da condizioni climatiche e morfologiche ben più favorevoli alla produzione di grandi quantità di vino.
Dall‘autoconsumo al commercio tra cantine sociali e vignaioli
La produzione di vino destinata al commercio, anche extra regionale, ha le sue prime esperienze già in età romana. É in epoca asburgica, però, che tale commercio assume dimensioni rilevanti: nel XVIII secolo i mercati mitteleuropei influenzano già notevolmente la vitivinicoltura trentina. Un grande sviluppo si ebbe nella seconda metà del XIX secolo a causa della crescente domanda di vino trentino in Austria legato all’epidemia di filossera. Tale epidemia si era diffusa nelle regioni ungheresi prima che in Trentino. Nel 1893 nascono le prime cantine sociali a Revò, Riva del Garda e Borgo Valsugana. Curiosamente, queste località hanno oggi perso la loro vocazione vitivinicola. Fu la necessità di fare fronte comune, condividendo pericoli e vantaggi del loro lavoro, che spinse i contadini a unirsi in forme cooperative. Ancora oggi, il 90% delle uve prodotte viene conferito a cantine sociali, che contano più di 7.500 soci. Accanto a questa importante realtà si ritaglia uno spazio il mondo dei vignaioli, composto da aziende agricole di piccole-medie dimensioni che producono vino con le proprie uve, cercando di valorizzare le specificità territoriali.
Dalla coltivazione promiscua alla viticoltura specializzata
La viticoltura specializzata è un fenomeno relativamente recente: fino al secondo dopoguerra, il paesaggio era caratterizzato da coltivazioni promiscue, nelle quali si alternavano – tra i filari delle vigne – ortaggi, cereali, prati da fieno, in modo da garantire la sussistenza della famiglia contadina. Una necessità, questa, legata all’asimmetria dei rapporti di mezzadria, molto diffusi in Trentino, che imponevano al mezzadro di diversificare la produzione per assicurare, oltre alla quota al padrone dei campi, il sostentamento del nucleo famigliare. Solo negli 1950-60, con l’introduzione della meccanizzazione, la diffusione di nuove forme di contratti di affitto, la differenziazione delle entrate del reddito familiare, si supera questo modello che aveva plasmato per secoli il paesaggio rurale trentino.
Citazioni principali dalle fonti bibliografiche
“In somma, per quanto veggo, questo è il Paese del Vino naturalmente, e se appresso i Chinesi per quinto Elemento si dà il Legno, attesane la tanta copia, e uso: appresso i Trentini direi, che il quinto Elemento fosse il Vino”.
1673, Michel’Angelo Mariani, Trento con il sacro Concilio et altri notabili
“La vite si coltiva colla potatura, sarchiatura, sofossature e qualche volta coll’ingrasso. Le viti si raccomandano al palo secco; si lascia però ne’ filari qualche albero verde perchè reistino alla forza de’ venti. Le specie più comuni sono bianca-nosiola, garganegra, peverella, paolina, vernazza, ecc.”
1811, Annali dell‘agricoltura del Regno d’Italia